Ammazzato da un poliziotto: la condotta aggressiva da lui tenuta in precedente dimezza il risarcimento per i suoi familiari

Per i giudici, nell'ipotesi di danno causato da eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi (o altro mezzo di coazione fisica), l'azione violenta (o la condotta di resistenza) della persona offesa integra il concorso del fatto colposo del danneggiato

Ammazzato da un poliziotto: la condotta aggressiva da lui tenuta in precedente dimezza il risarcimento per i suoi familiari

Uomo ucciso da un poliziotto: la condotta aggressiva da lui precedentemente tenuta dimezza il risarcimento riconosciuto ai suoi familiari. Questo quanto deciso dai giudici (sentenza numero 2847 del 5 febbraio 2025 della Cassazione), i quali, chiamati a prendere in esame il contenzioso originato da un episodio verificatosi venticinque anni fa in Sicilia, hanno applicato il principio secondo cui, in tema di responsabilità civile, nell'ipotesi di danno causato da eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi (o altro mezzo di coazione fisica), l'azione violenta (o la condotta di resistenza) della persona offesa integra il concorso del fatto colposo del danneggiato, perché la reazione del pubblico ufficiale – nel rispetto dell'imprescindibile requisito della proporzione – non è discrezionale, ma assolutamente necessitata (poiché non è altrimenti evitabile il fatto ostativo all'adempimento del dovere) e si pone, quindi, in rapporto di regolarità causale con la condotta della vittima, senza integrare un fatto sopravvenuto di per sé sufficiente a provocare l'evento dannoso. Decisiva la ricostruzione dell’episodio, così come effettuata durante il procedimento penale che ha portato alla condanna del poliziotto ritenuto colpevole di omicidio colposo. Difatti, ragionando sul risarcimento riconosciuto a moglie e figli dell’uomo ucciso dal colpo di pistola sparato dal poliziotto, non può essere ignorato, secondo i giudici, il comportamento aggressivo da lui tenuto in strada. Per i magistrati di Cassazione bisogna tenere presente che l’obiettivo fissato dal Codice Penale non è la tutela del mero prestigio della pubblica autorità bensì l’assicurazione dell’adempimento dei pubblici doveri, quale espressione del buon andamento della pubblica amministrazione, riconosciuto dalla Costituzione. E ciò spiega l’accostamento della scriminante relativa all’uso legittimo delle armi a quella dell’adempimento del dovere. In ragione di tale scopo, ossia l’assicurazione dell’adempimento dei pubblici doveri, l’uso legittimo delle armi postula, per un verso, la sussistenza di una situazione impediente l’adempimento del pubblico dovere (ovverosia, una condotta attuale di violenza lato sensu, comprensiva della minaccia, oppure di resistenza all’autorità) e, per altro verso, la necessità di reagire con l’uso di armi o di altri mezzi coercitivi per respingere la violenza o vincere la resistenza, rendendo così possibile l’adempimento del dovere medesimo. Così, a fronte di tali circostanze – allorché, cioè, il pubblico ufficiale si trovi nell’alternativa di rimuovere con le armi la violenza o la resistenza impedienti l’adempimento del dovere oppure di non adempiere al dovere medesimo –, l’uso delle armi (o degli altri mezzi coercitivi) non è discrezionale ma è doveroso, poiché non è altrimenti evitabile il fatto ostativo al detto adempimento, pur dovendo ovviamente rispettarsi il requisito della proporzione tra l’interesse leso e quello che l’adempimento del dovere d’ufficio tende a soddisfare. Quindi, avuto riguardo allo scopo e ai presupposti della scriminante, nell’ipotesi di eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi, la connessione di regolarità causale sussistente tra la violenza (o la resistenza) della vittima e la reazione eccessiva del pubblico ufficiale risalta in modo ancor più evidente di quanto non accada nell’ipotesi di eccesso colposo nella legittima difesa con riguardo al rapporto tra la reazione dell’aggredito e l’offesa ingiusta subìta. In entrambi i casi, infatti, la reazione dell’autore del reato alla condotta illecita tenuta dalla vittima, osservano i magistrati, non costituisce, diversamente dalla reazione del provocato, frutto di libera elezione. Tuttavia, mentre nell’ipotesi della legittima difesa è ammessa la fuga (la quale, anzi, in determinati casi è persino necessaria, in quanto la possibilità dell’agevole e non rischiosa fuga esclude la necessità di difendersi ed è previsto il carattere meramente facoltativo del soccorso difensivo, l’uso delle armi – nel rispetto del requisito della proporzione – è sempre doveroso e non è ovviamente ammessa la fuga del pubblico ufficiale dinanzi alla violenza o resistenza impedienti l’adempimento del pubblico dovere. Tirando le somme, la circostanza che la reazione del pubblico ufficiale alla condotta illecita (violenta o resistente) posta in essere dalla persona offesa sia assolutamente necessitata impone di riconoscere l’esistenza di una connessione di regolarità causale tra le dette condotte, dovendosi così escludere che quella del pubblico ufficiale integri un fatto sopravvenuto di per sé sufficiente a provocare l’evento dannoso subìto dalla vittima e dovendosi al contrario ritenere che il fatto di quest’ultima si ponga in rapporto di causalità rispetto al medesimo evento dannoso, come fattore concorrente alla sua produzione, e, pertanto, valutabile ai fini di una diminuzione del risarcimento. Applicando questa prospettiva alla vicenda oggetto del procedimento, i magistrati sono netti: la condotta di violenza psichica tenuta dal privato cittadino mediante l’assunzione di un contegno minaccioso, aggravato dall’uso di un’arma, ha reso doverosa la reazione del poliziotto e dell’altro pubblico ufficiale diretta a vincere la violenza medesima in funzione dell’adempimento del dovere di disarmarlo ed arrestarlo. Il carattere eccessivo di tale reazione – effettuata in spregio all’imprescindibile requisito della proporzionalità – non ha tuttavia escluso il nesso di regolarità causale esistente tra essa e la precedente azione violenta dell’uomo, azione che, assumendo in astratto la natura di causa mediata dell’evento dannoso successivamente cagionato dal poliziotto, va considerata ai fini dell’applicabilità del concorso di colpa» della vittima, con conseguente riduzione del risarcimento riconosciuto ai familiari della vittima.

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